L’ordine esatto di arrivo è Valerio Scanu, il trio Pupo-Emanuele Filiberto-Luca Canonici, Marco Mengoni. Sì, avete capito bene: l'avverarsi dell’ipotesi più temuta e, inoltre, un’ingiustizia in seno a un’ingiustizia. Già l'annuncio della terna finale aveva fatto rivoltare la platea: l’orchestra ha buttato via gli spartiti, la sala stampa è crollata. Man mano che la Clerici escludeva i concorrenti migliori, il pubblico dell’Ariston si agitava, urlava “vergogna” e “venduti”, la sala gremita di giornalisti si prodigava in fischi, gli orchestrali si sdegnavano e chiedevano di rendere noto il loro voto. Non riuscivano a credere possibile che il loro gusto fosse esattamente l'opposto di quello espresso dal televoto. Nell’atmosfera di contestazione generale gli operai di Termini Imerese, intervistati da Maurizio Costanzo, si inserivano come un altro tassello di un paese in crisi. Poi l’altra beffa: all’interno della finalissima Marco Mengoni è arrivato ultimo, lui, l’unico lì in mezzo ad avere la stoffa, presenza scenica (ancora da governare), una voce che ha toccato anche Mina. Sembra impossibile che la volontà popolare (che la Clerici tanto invoca e rispetta) si esprima in questa direzione. Morgan avrebbe dissentito: «Quando fu chiesto al popolo di salvare uno dalla croce, fu scelto Barabba».
L’invasione del pianeta sanremese da parte degli ultracorpi usciti dai talent show iniziò lo scorso anno con Marco Carta. Era l’avvisaglia che la futura proposta discografica sarebbe stata intercettata nei programmi televisivi e non nei club, dove in genere chi fa davvero questo mestiere sta e, purtroppo, resta. Per quanto riguarda il Principe, ce lo aveva assicurato subito dopo l’esclusione, che sarebbe rientrato e si sarebbe posizionato tra i primi sei. E non perché avesse qualità divinatorie. Emanuele Filiberto ha presto capito i meccanismi televisivi, ha imparato che la gente vota il personaggio e non la canzone, la quale, oggettivamente, è la peggiore di questo e altri festival, la più ruffiana, insincera, musicalmente insufficiente.
Dopo il festival è il trio stesso ad ammettere: «E’ stato un gioco, noi facciamo un altro mestiere, non abbiamo un disco pronto, né canteremo più». Giorgio Gaber cantava: “E’ anche troppo chiaro agli occhi della gente che tutto è calcolato e non funziona niente. Io non mi sento italiano ma per fortuna o purtroppo lo sono”.
E’ il Sanremo del nostro scontento, quello che pur avendo una possibilità di riscattarsi artisticamente, premiando ciò che aveva di buono, inciampa su se stesso, si riduce a una pagliacciata, fa crescere in chi ha un minimo di sensibilità artistica una forte indignazione. Slittano fuori dal podio brani meritevoli tipo Per tutta la vita di Noemi, La cometa di Halley di Irene Grandi, da subito considerata una delle migliori, Meno male di Simone Cristicchi, Malamorenò di Arisa (da ringraziare per la scelta deliziosa delle sorelle Marinetti). Malika Ayane ha almeno vinto il Premio della critica Mia Martini, distaccando chiunque altro. Ha classe e qui ci è arrivata per suo merito (appoggiata da Sugar di Caterina Caselli e col valore aggiunto di Pacifico al testo) presentando uno di quei progetti destinati a funzionare a lungo termine. La sua canzone Ricomincio da qui è suggestiva, prevertiana, si insinua pian piano fino a convincere e coinvolgere, è un po’ la sua rivincita per lo scorso anno, quando la bella Come foglie fu sottovalutata e dovette trovare da sola il vento giusto. Alla notizia del premio si è detta orgogliosa dell’insurrezione dell’orchestra in difesa del suo brano, ma ha anche confessato che non ha sperato neanche per un attimo di vincere contro il mostro tentacolare del televoto.
Nell’ultima serata Emilio Solfrizzi si è esibito in un numero bollywoodiano tratto dal musical Shava Shava, i bravissimi ballerini di This is it hanno fatto il tributo a Michael Jackson, precisi come orologi, in una danza quasi sincronizzata su coreografie in stile suo (si dichiarano eternamente grati al lavoro di Jacko, lo descrivono maniaco della perfezione, persona amorevole, genio, profeta, fratello, amico del pianeta e ispiratore dell’umanità), a seguire Lorella Cuccarini, coperta solo da una chitarra, ha presentato stralci di Il pianeta proibito. Dopo l’ondata di bambini Iko Iko e di Ti lascio una canzone, Mary J Blige, pur senza Tiziano Ferro, ci ricorda cosa vuol dire avere una gran voce e fare musica seria.
Si chiude all’amatriciana, con le tagliatelle di nonna Pina, un’edizione che ha alzato fiera il tricolore (con Italia, amore mio, il CT della Nazionale Lippi, Miss Italia, le gonne bianco rosse e verdi delle Divas e della Clerici, la celebrazione del sessantesimo), decisamente al femminile, segnata da principesse da sogno (Sissi e Rania di Giordania), principi popolari che battono scugnizzi popolani, e pacifici accordi commerciali.
Ha fatto un certo effetto vedere il teatro Ariston trasformato in una torta nuziale di cui ognuno si prende una fetta: centro, destra, sinistra (che si è accaparrata il dopofestival su Youdem e un posto per Bersani in platea). Undici milioni di italiani fanno gola a tutti. Ecco perché oggi c’è un’unica Raiset, la nuova creatura delle larghe intese, contraria allo scontro frontale della programmazione, rinunciataria per il bene comune. D’altronde, se mal comune mezzo auditel, meglio l’alternanza. Così Oriazi e Curiazi depongono le spade e convivono tranquillamente in sala, da una parte la colonia di amici con Maria De Filippi, Maurizio Costanzo (l’ultima volta che indossava una cravatta è stato al suo matrimonio), Pierdavide Carone, autore del brano di Valerio Scanu (quello che fa l’amore in tutti i laghi), Alessandra Amoroso che ha duettato con lui, il coreografo Daniel Ezralow. Dall’altra il coreografo di X Factor Luca Tommassini, il vincitore del talent Marco Mengoni, la brava Noemi, Mara Maionchi e il suo pupillo già premiato ieri nella categoria Nuova generazione Tony Maiello, Francesco Facchinetti,l’assente Morgan.
Vincitrice su tutti Antonella Clerici, una presenza rassicurante, la moglie e non l’amante, quella che mentre veste l’abito buono e i tacchi alti sottintende che preferirebbe un paio di ballerine e una tuta, disposta a prendersi in giro, a farsi carico sola delle faccende di casa (l’unica vera spalla è stata il maestro d’orchestra Sabiu), a mostrare entusiasmo per tutto e tutti, anche a costo di usare superlativi bugiardi (“elegantissimi” i minatori di Santa Fiora, “meravigliose” le battute di Cassano lette male al gobbo etc…), comunque sempre serena, rispettosa delle canzoni e premurosa con i cantanti in gara.
Certo chiamarla gara è un esercizio di nostalgia. Quello che manca ed è mancato nelle ultime edizioni è proprio l’attesa, la partecipazione del pubblico alla tensione degli artisti, il tifo indotto, cioè non aprioristico bensì frutto di una conquista lenta. La competizione che tiene col fiato sospeso, fidelizza, soddisfa e soprattutto si svolge secondo regole chiare, trasparenti, che diano credibilità al risultato. La filosofia aristoniana ormai si basa sul rimpasto di format di successo (I raccomandati, Ti lascio una canzone, Zelig, fiction varie), sull’invito “in gara” di personaggi - calamite di ascolti a prescindere dal brano che hanno a disposizione (non vogliamo credere che questo sia il meglio della musica italiana), sull’idea che alla gente vada dato ciò che vuole.
Ma la musica non è un’imbeccata, è anche, anzi soprattutto, una proposta, una scoperta, una sfida. La nostra critica della ragion pura consiste nell’interrogarci programmaticamente circa il fondamento del televoto: perché permettere questa scellerata modalità, chi ne decide la validità? E’ una puntata al casinò, più soldi hai da giocare più possibilità hai di vincere. Difficile fare pronostici, bisogna affidarsi alle scommesse dei bookmaker? Alle dinamiche elettive dei reality? Può succedere l’imprevedibile, anche che un escluso come il Trio o Scanu venga ripescato e vinca. Vale la meritocrazia o la democrazia? Spesso viaggiano in direzioni opposte. Per citare Battiato in Povera patria: “Questa democrazia che a farle i complimenti ci vuole fantasia. Non cambierà, non cambierà, non cambierà, forse cambierà”.
fonte: www.ilmessaggero.it
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